(a cura di Eiael)
«Victor Hugo, che nell’animo umano gittò sguardi profondi, fino a raggiungerne le più recondite latebre, fu tra quelli che osarono. Poi l’agile penna ne ritrasse tutti gli aspetti e li vestì di poesia indimenticabile. Eccone un saggio che coglie a pretesto la gioia di una madre per una culla e il suo dolore per una tomba, per intesservi la dottrina della reincarnazione, a cui il colosso della letteratura francese evidentemente credeva. Lo riproduciamo nella traduzione della nostra sensibile ed esimia sorella e collaboratrice AB-BA, alla quale esprimiamo il nostro più vivo ringraziamento».
Hahajah
Madri in lutto, il Vostro pianto è inteso lassù. Dio, che ha nella mano tutti gli uccelli perduti, talvolta allo stesso nido restituisce la medesima colomba. O madri, la culla comunica con la tomba. L’eternità contiene più di un segreto divino.
La madre, della quale sto per parlarvi, dimorava a Blois; io l’ho conosciuta in tempi felici; e la sua casa era contigua a quella di mio padre. Ella aveva tutti i beni che Dio dona o permette. Si era maritata con l’uomo che amava. Poi ebbe un figlio; il che fu un’ineffabile gioia.
Questo neonato dormiva in una culla di seta; sua madre lo allattava; egli faceva un dolce rumore presso il capezzale nuziale; e, di notte, la madre apriva la sua anima alle innumeri chimere, povera madre, e i suoi occhi risplendevano nell’ombra, quando, senza respiro, senza voce, rinunziando al sonno, tutta piegata, ella ascoltava dormire il bambino roseo. Sin dall’alba, ella cantava rapita e fiera.
Ella si rovesciava sulla sedia, indietro, mentre il fazzoletto le lasciava scorgere il seno gonfio di latte, e sorrideva al bambinello e lo chiamava angelo, tesoro, amore, e mille folli cose.
Oh! come baciava quei bei piedini rosa, come parlava loro! Il bambino, grazioso e nudo, rideva e, sostenuto dalle braccia materne, gioioso, saliva dalle ginocchia sino alla bocca della madre.
Tremante come un daino che viene spaventato da una foglia, il bambino crebbe. Per il bambino, crescere, è vacillare. Egli si mise a camminare e si mise a parlare. Ebbe tre anni; dolce età, in cui già la parola, come un uccelletto, batte l’ala e se ne vola. E la madre diceva: «mio figlio». E riprendeva: «vedete com’è grande? Apprende. Conosce l’alfabeto. E’ un diavolo. Vuole che lo vesta da ometto; non vuole più i vestitini da bambino. Sono già molto cattivi questi piccoli uomini. Ma è lo stesso, egli legge bene; andrà lontano, è intelligente; io gli faccio compitare il vangelo». E i suoi occhi adoravano quella fragile testa e, donna felice, madre dallo sguardo trionfante, ella sentiva il suo cuore battere nel figlioletto.
Un giorno – noi abbiamo tutti di queste date funeste! – il croup, mostro schifoso, sparviero delle tenebre, si abbatté orribilmente sulla bianca casetta e, piombando addosso al povero bambino, lo afferrò alla gola.
O nera malattia! Chi non ha visto dibattersi, ahimè quei poveri bambini che il croup feroce stringe nelle sue dita soffocanti! Essi lottano, mentre l’ombra riempie lentamente i loro occhi d’angelo e dalla loro bocca fredda esce un rantolo strano e così misterioso che par di sentire nel loro petto, in cui muore il soffio ansante, lo spaventoso gallo della tomba cantare l’alba oscura.
Così, come un frutto che ha sentito la puntura della biscia, il bambino morì. La morte entrò come un ladro e lo portò via.
Una madre, un padre, il dolore, il nero cataletto, la fronte che batte contro il muro. I lugubri singhiozzi che sorgono dalle viscere. Oh! la parola finisce dove comincia il grido; silenzio alle parole umane!
La madre dal cuore ferito, mentre al suo fianco piangeva il padre taciturno, restò tre mesi sinistra, immobile nell’ombra, l’occhio fisso, mormorando non si sapeva che di oscuro, e guardando sempre lo stesso angolo della parete. Ella non mangiava, la sua vita era la sua febbre; non rispondeva più a nessuno; le sue labbra tremavano; la si sentiva con triste spavento che diceva a voce bassa a qualcuno: «rendimelo»!
E il medico disse al padre: «E’ necessario distrarre questo cuore triste e dare un fratello al bambino morto».
Il tempo passò; i giorni, le settimane, i mesi.
Ella si sentì madre una seconda volta.
Dinanzi alla culla fredda del suo angelo effimero, ricordando l’accento col quale il piccolo diceva: «mammina», ella sognava, muta, seduta sul letto.
Il giorno in cui, a un tratto, trasalì nel suo fianco l’essere sconosciuto promesso alla nostra alba mortale, ella impallidì. «Chi è questo straniero?», – disse – poi gridò, cupa e cadendo in ginocchio: «no, no, non voglio! no! tu saresti geloso! oh mio dolce dormiente, tu che sei ghiacciato dalla terra diresti: “mi si dimentica; un altro ha preso il mio posto; mia madre ama e ride, ella lo trova bello. Ella lo bacia e io… io sono nella tomba! No,no”».
Così piangeva questo dolore profondo.
Il giorno venne in cui ella mise un altro bambino al mondo; e il padre allegro disse: è un maschietto! Ma il padre soltanto era allegro nella casa. Interamente piegata sotto il ricordo antico, la madre fantasticava. Le si portò il neonato su di un cuscino. La madre lasciò fare e gli porse il seno. Ma d’un tratto, mentre truce, accasciata, pensando al neonato meno che all’anima fuggita – ahimè! – e pensando meno alle fasce che al sudario, ella diceva: «quell’angelo nel suo sepolcro è solo»! Oh! dolce miracolo! Oh madre cui ritorna la felicità! Ella sentì con una voce ben conosciuta, il neonato parlare nell’ombra tra le sue braccia e a voce bassa mormorare: «Sono io. Non lo dire a nessuno».
Victor Hugo